Si parla di plusvalenza immobiliare quando un immobile in proprio possesso viene rivenduto ad un prezzo superiore rispetto al costo sostenuto in fase di acquisto. Generalmente la plusvalenza viene tassata nel caso in cui si tratti di una seconda casa, o quando la prima casa viene venduta prima del termine dei cinque anni dall’acquisto dell’immobile in oggetto. Sotto il punto di vista fiscale viene fatta questa distinzione riguardo alla tassazione poiché il fattore tempo di residenza funge da discriminante per valutare se si tratta di un’operazione speculativa o meno.
Dunque, la plusvalenza viene principalmente assoggettata a tassazione quando non si tratta di immobile di residenza principale, quando viene venduto prima di cinque anni dall’acquisto per abitazione principale e quando esso non è stato ottenuto a seguito di successione.
Sono soggette a plusvalenza tutte quelle operazioni che prevedono la cessione a titolo oneroso, e con profitto, degli immobili o anche soltanto dei relativi diritti reali di godimento. Sono invece esenti le cessioni a titolo gratuito o senza profitto, immobili che fanno parte dell’asse successorio e le abitazioni adibite a residenza principale del proprietario o di suoi parenti per la maggior parte del tempo trascorso dall’acquisto.
Chi è assoggettato obbligatoriamente dalla legge al pagamento della tassa sulla plusvalenza, può farlo in sede di dichiarazione dei redditi pagando in base all’aliquota Irpef prevista per l’ammontare di reddito netto dell’anno di riferimento. Solitamente risulta più conveniente richiedere al notaio in sede di rogito, l’applicazione dell’imposta sostitutiva del 20% sulla plusvalenza realizzata, che andrà pagata immediatamente al notaio che procederà alla liquidazione in via telematica.
Per calcolare la plusvalenza è molto semplice: basta sottrarre all’incasso della vendita dell’immobile l’importo erogato in fase di acquisto, ottenendo quindi quella somma che sarà oggetto di tassazione.